Ma non sono qui a parlarvi di scienza dell’alimentazione, che non è propriamente il mio settore, tuttavia vorrei portare l’attenzione alla cura con cui si fanno le cose, quel modo attento e amorevole che ci fa tagliare le verdure appena comprate al mercato solo per farci la zuppa. Perché sono proprio quei gesti preparatori – scelgo le verdure, le preparo, le metto insieme in pentola, aspetto la giusta cottura, regolo la sapidità – i veri indicatori della cura che abbiamo per noi. Altro che abbonamenti in palestra o toelette straripanti di creme costose. Anche quello serve, certo, ma non può essere tutto lì, no?
Spesso più che il contenuto è importante la sua vestizione, la sua veste estetica. E non è un’affermazione che dico così per dire: per molti anni mi sono occupata di comunicazione visiva – continuo a occuparmene sempre molto volentieri anche ora, quando capita – e conosco bene il significato di ciò che dico. Quante volte ho dovuto “vestire” bene prodotti scadenti solo per donar loro un appeal che soli e nudi mai avrebbero avuto. Uh!
Lo spirito del tempo attuale (i tedeschi hanno una parola, zeitgeist, per definire lo spirito culturale dominante che informa una data epoca – mi piace questa cosa di avere una parola puntuale che elimina immediatamente inutili fraintendimenti e giri di parole) è incentrato prevalentemente sul vedere. Sull’immagine che vale più di mille parole. Sulla foto. Che deve essere bella e perfetta. Viviamo in una società dove il senso della vista è iper sollecitato, tutto è fatto per essere visto. Stiamo perdendo il “sentire” perché siamo super concentrati sul “vedere”.
E il nutrimento?
Parte da lì.
Se non sentiamo la differenza tra un fagiolino surgelato e uno fresco le cose sono due: o non abbiamo mai mangiato un fagiolino fresco, per cui per noi il fagiolino ha quel sapore lì, o abbiamo il senso del gusto poco affinato.
Se impariamo a sentire le cose prima che a vederle, impariamo a nutrirci meglio. Che non si nutre solo il corpo. Si nutre tutto. Si nutre la pancia, la mente, il cuore. Si nutrono i sensi. Si nutre chi amiamo. E, soprattutto, si nutre con l’amore. Che l’attenzione e la cura possono esserci solo con l’amore. Senza, è come riempire spazi vuoti. Apro la scatola e mangio, svuoto uno spazio per riempirne un altro, semplicemente spostando il contenuto, senza trasformarlo, senza fare nulla affinché quel contenuto possa divenire il “mio” contenuto.
Durante i miei ritiri amo fare la pratica yoga a occhi bendati, con la mascherina nera. È molto difficile, almeno all‘inizio, perché non abbiamo alcun punto di riferimento se non noi stessi. Il senso di questa pratica apparentemente bizzarra non è solo quello di sviluppare la nostra propiocettività (la capacità di percepire e riconoscere la posizione del corpo senza il supporto della vista) ma quella di rendersi scevri dai punti di vista, a partire da quello fisico (guardo un punto prefissato) fino all’abbandono del punto di vista che scatena il giudizio (il vicino di tappetino sa stare nella posizione dell’albero meglio di me – che poi chi fa yoga sa bene che il vicino non si guarda…). Praticare bendati costringe ad affinare tutti gli altri sensi e a non perderci in mille distrazioni: i piedi sembrano più grandi e siamo perfettamente consapevoli del loro movimento e il corpo sembra avere un peso diverso. Gli occhi si riposano ma tutti gli altri muscoli del corpo lavorano il triplo! Poi, a un certo punto, succede una cosa: ci abituiamo a questa condizione e cominciamo a prendere confidenza con la mancanza di punti di vista. Entriamo nella grazia del movimento libero dal giudizio, nostro e degli altri.
Liberarsi di qualcosa per scoprirne un’altra. Liberarsi dal giudizio per imparare ad ascoltarsi. Di quell’ascolto profondo che nutre.
Buon sentire.
♥